Taiwan: l’ago della bilancia nello scacchiere geopolitico cino-statunitense. L'analisi di Thomas Candolo, Ufficio Studi di Copernico SIM.

La questione Taiwan sembra molto lontana dalle preoccupazioni attualmente prioritarie, soprattutto in Europa, ma secondo il nostro pensiero quel piccolo baluardo di democrazia è di importanza primaria nello scacchiere geopolitico mondiale: potrebbe infatti diventare il prossimo “cigno nero” e causare una rimodulazione degli equilibri economici. Taiwan è un territorio di 24 milioni di abitanti, situato a 150 chilometri dalle coste cinesi, con una superficie di trentasei chilometri quadrati (per un metro di paragone equivale più o meno alla somma della superficie della Sardegna e quella della Corsica), il cui PIL (prodotto interno lordo) è superiore a quello della Svizzera e della Svezia. Domina la produzione mondiale di semiconduttori arrivando a coprire dal 40% al 85% dell’offerta globale, a seconda delle categorie di chip.

Proprio nel 2021 il mondo intero, dagli Stati Uniti all’Asia passando per l’Europa, ha scoperto che quel minuscolo e sottile foglietto composto da circuiti integrati (chip) è una componente assolutamente essenziale per tutti i settori industriali, senza eccezioni. Pensate cosa potrebbe accadere se si verificasse un’invasione cinese e venisse attuato un blocco dell’esportazione della TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company)? Molto semplice, la produzione industriale mondiale subirebbe pesanti pressioni per molto tempo.

È strategicamente davvero incredibile pensare di dipendere da un solo fornitore (o comunque dipenderne per la quasi totalità della domanda) ma nel tempo né gli Stati Uniti né l’Europa sono stati in grado di acquisire know how e materie prime per diversificare la catena di approvvigionamento dei microchip ed ora l’intera economia dipende da un’isola così vulnerabile. In passato i semiconduttori sono stati uno dei segreti della superiorità americana nell’informatica nel mondo digitale. Nello specifico Intel, azienda produttrice di semiconduttori, microprocessori e molti altri circuiti integrati, con sede nella Silicon Valley (il nome deriva proprio dal fatto che i circuiti vengono stampati sul silicio) ha perso l’egemonia mondiale intorno al 2012, quando Apple ha stretto una collaborazione in esclusiva con TSMC per la produzione di processori per l’iPhone. A Apple si è aggiunta anche Huawei e da allora Taiwan è diventata la regina del settore a livello mondiale.

Gli interessi sull’isola sono molti ed ecco il motivo per il quale la Cina vorrebbe nuovamente imporre l’egemonia sulla popolazione taiwanesi. Secondo Xi, la riunificazione di Taiwan alla madrepatria è una questione centrale, doverosa e necessaria da portare a compimento anche con la forza, se necessario. L’indipendenza di Taiwan va contro la storia e porterà in un vicolo cieco: la riunificazione dovrà realizzarsi in base al principio della riunificazione pacifica mediante la creazione di un paese a due sistemi (lo stesso applicato ad Hong Kong).

Taiwan è considerata dalla terra del dragone una provincia ribelle in quanto vi trovarono rifugio le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek, sconfitte dai comunisti di Mao Zedong durante la guerra civile combattuta tra il 1945 e il 1949. Da allora Pechino ha sempre sostenuto che Taiwan fosse una provincia della Repubblica Popolare Cinese occupata da forze secessioniste ribelli e diffida i suoi governi, democraticamente eletti, dal compiere qualsiasi passo verso la dichiarazione d’indipendenza. Dopo la morte di Chiang, avvenuta nel 1989, i suoi successori continuarono, in completa rottura con Pechino, a costruire l’indipendenza dell’isola e indissero elezioni democratiche. Nello stesso periodo invece a Pechino il regime comunista sempre più autoritario e intransigente reprimeva brutalmente le manifestazioni studentesche di piazza Tiananmen. Ricordiamo ancora l’immagine potente del giovane cinese che con borsa di plastica in mano tentava di bloccare l’avanzata dei carri armati del regime di Deng Xiaoping.

Le nuove generazioni nate e cresciute sull’isola taiwanese si sentono sempre meno cinesi anche grazie al fiorire di una vita culturale (dalla letteratura al cinema) molto creativa; indire un referendum popolare per riformare la costituzione e dichiarare l’autonomia dell’isola darebbe di sicuro il via a un attacco militare di Pechino.

E gli Stati Uniti come si sono posti nell’ultimo secolo nei confronti di Taiwan?

Nel 1945-49 gli Usa appoggiarono il ribelle Chiang nella guerra civile contro Mao, riconoscendo l’isola come indipendente. Molti aiuti economici e militari furono inviati dagli Stati Uniti nella capitale ribelle Taipei, al fine di sottrarre sempre più l’isola all’influenza cinese e incrementare il potere economico sul continente asiatico.

La svolta però avvenne nel 1972 quando il Presidente Nixon e Mao si incontrarono in sede istituzionale per stemperare gli animi molto tesi; una delle cause principali fu proprio l’appoggio statunitense alla ribelle Taiwan. Da quella data i Presidenti che si susseguirono formalmente riconobbero la supremazia di Pechino su tutto il territorio cinese ma nei fatti lasciarono trapelare che in caso di attacco cinese all’isola sarebbero intervenuti per difenderla. L’America accetta il principio che di Cina ce n’è una sola ma nella realtà le considera come due entità a sé stanti.

Purtroppo, qualora la Cina dovesse optare per l’invasione dell’isola, un eventuale intervento americano avrebbe delle controindicazioni molto serie. Il costo sarebbe molto elevato secondo quanto riportato dal Professore Charles Glaser, docente di affari internazionali, sicurezza e strategie militari alla George Washington University. Nel suo saggio pubblicato sulla rivista americana di geopolitica “Foreign Affairs”, “Washington is avoiding the tough questions on Taiwan and China”, il Professore Glaser sostiene una tesi davvero molto difficile da far digerire ai patriottici a stelle e strisce: gli Stati Uniti non sono più la potenza dominante in quell’area pertanto sarà inevitabile lasciare Taiwan al suo destino. Glaser ricorda inoltre che ogni potenza militare deve seguire una gerarchia di priorità. In cima alla scala si trova il proprio territorio, che in questo caso non è minacciato dalla Cina; poi vengono gli alleati veramente strategici che in quell’area sono il Giappone e la Corea del Sud, i quali non devono assolutamente entrare nelle mire di influenza cinese. Pertanto perdere Taiwan sembra quasi inevitabile. Vi sarà probabilmente una situazione simile a quella che si è verificata ad Hong Kong e definita dal professore come il “cedimento a fin di pace”.

La situazione è costantemente in evoluzione ma siamo fiduciosi che Biden e Xi percorreranno vie diplomatiche amichevoli e che mediante un dialogo costruttivo porranno fine per sempre ad escalation guerrafondaie inutili e dispendiose.