Un'analisi a cura del Dott. Thomas Candolo, Ufficio Studi di Copernico SIM, sul fenomeno crescente dell'inflazione ed i relativi effetti sui mercati.

Negli ultimi mesi, il livello dei prezzi di beni e servizi nelle maggiori economie occidentali ha ricominciato a salire prepotentemente.

Dopo un calo dovuto allo scoppio della pandemia, negli ultimi mesi l’inflazione è tornata a crescere prima negli Stati Uniti e poi nell’Eurozona, uscita a inizio anno da una deflazione durata cinque anni.

Secondo le principali istituzioni monetarie questo aumento è temporaneo, ma negli ultimi mesi si sono accumulati segnali che potrebbero far pensare che il fenomeno l’inflazione possa rimanere su livelli sostenuti per un po’.

Negli Stati Uniti, l’inflazione a maggio è salita dello 0,6% rispetto ad aprile, oltre le attese degli analisti che scommettevano su un aumento dello 0,5%.

Su base annua i prezzi al consumo sono cresciuti del 5%, anche in questo caso sopra le stime (previsto un tasso al 4,7%).

L’indice core dei prezzi al consumo, quello al netto di energia e alimentari, è salito a maggio dello 0,7% rispetto ad aprile, oltre il +0,5% previsto dagli analisti, mentre su base annua è aumentato del 3,8% a fronte del 3,5% atteso dal mercato. Si tratta del valore più elevato da oltre 30 anni.

 

Per cercare di calmierare l’ascesa dei prezzi, la FED ha annunciato che entro il 2023 aumenterà presumibilmente in due occasioni il costo del denaro; il Presidente Powell, probabilmente interverrà in quanto si registra un miglioramento economico strutturale e una ripresa del mercato del lavoro, due fattori fondamentali per giustificare un comportamento “hawkish” (l’obiettivo è quello di arrivare nel medio termine ad un’inflazione media intorno al 2 per cento).

Per ora, la banca centrale ha comunque mantenuto i tassi di interesse invariati ovvero tra lo 0 e lo 0,25%, confermando anche il QE che continuerà ad immettere nell’economia americana 120 miliardi di dollari al mese per sostenerla nella crisi.

Situazione leggermente diversa nel vecchio continente in quanto l’Eurostat stima che i prezzi a maggio siano saliti dell’1,6 per cento rispetto all’aprile 2020, la causa principale è da attribuire ad un forte aumento del costo dell’energia. A marzo, la crescita era stata dell’1,3 per cento, mentre a febbraio e gennaio era stata dello 0,9 per cento.

Ad ogni modo, l’aumento dell’inflazione a cui stiamo assistendo non è una sorpresa; le ingenti quantità di denaro immesse nelle economie da banche centrali e governi per contrastare la crisi hanno portato ad un inevitabile aumento generalizzato dei prezzi.

Quest’aumento non è ancora allarmante, perché si tratta di tassi relativamente bassi, e va considerato che una parte del rialzo è dovuta semplicemente al fatto che stiamo confrontando i prezzi di oggi con quelli di un anno fa: il punto peggiore della crisi.

Il fatto che il fenomeno non sia allarmante non vuol dire però che vada trascurato, perché diversi segnali lasciano presagire che l’inflazione possa salire ulteriormente nel breve termine.

Il segnale più importante è l’aumento dei prezzi delle materie prime registrato nell’ultimo anno.

Questa settimana, il Bloomberg Commodity Spot Index (un indice che misura i prezzi di 23 materie prime tra cui petrolio, oro, alluminio, mais, zucchero e caffè) ha toccato i suoi massimi dal 2011, crescendo del settanta per cento da marzo 2020, quando era sceso ai minimi da quattro anni a causa dello scoppio della pandemia.

Fra tutte le sue componenti spicca il prezzo del petrolio, salito di oltre il trenta per cento da inizio anno.

Questo è uno dei fattori più importanti dell’inflazione perché influisce sia sul costo dell’energia, e quindi della produzione industriale, sia su quello dei carburanti, e quindi dei trasporti delle merci.

L’aumento del prezzo del greggio è dovuto a due fattori principali: la ripartenza di grandi economie che ne consumano molto, come gli Stati Uniti ma soprattutto la Cina (dove il prodotto interno lordo è cresciuto del 18,3 per cento nel primo trimestre 2021 rispetto al primo trimestre 2020), e la recente decisione dell’OPEC+ (che è un’alleanza fra l’OPEC, il cartello dei paesi esportatori di petrolio tra cui l’Arabia Saudita, e altri importanti produttori come la Russia) di mantenere invariata la produzione di greggio dopo anni di tagli, benché la domanda stia aumentando.

Allo stesso tempo, anche diverse materie prime destinate alla produzione di alimenti, come il mais, il grano e lo zucchero sono diventate più care a causa di fenomeni climatici avversi, come la siccità che ha colpito il Brasile, ma anche a causa dei problemi logistici che la pandemia continua a provocare alle filiere.

Questo sta facendo salire il livello generale dei prezzi del cibo su scala globale, come conferma l’ultimo aggiornamento dell’indice dei prezzi del cibo redatto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), salito in aprile del 30,8 per cento rispetto a un anno prima, a livelli che non si vedevano dal 2014.

Oltre all’aumento dei prezzi delle materie prime, ci sono altri fattori che stanno facendo salire l’inflazione e ne segnalano un possibile aumento nel breve termine.

Le misure di contrasto alla pandemia hanno dato luogo a rallentamenti nella logistica e problemi nel mantenimento in funzione delle linee produttive di impianti dove si producono semilavorati come i semiconduttori, che hanno creato a loro volta problemi alla produzione di prodotti finiti, dalle automobili agli elettrodomestici.

Il settore automobilistico è uno dei più colpiti dalla carenza di microchip: a fine aprile, Ford ha dovuto chiudere temporaneamente una dozzina di impianti tra Europa e Nord America, Renault ha smesso di aggiornare le proprie previsioni sulla produzione per via della “troppa incertezza”, mentre Volkswagen e Stellantis (il nuovo marchio nato dalla fusione di FCA e PSA) hanno avvertito che la situazione sta peggiorando nel secondo trimestre.