In Europa, a inizio giugno, la BCE compie un ulteriore passo verso la normalizzazione monetaria: il 5 giugno riduce i tassi d’interesse, settimo taglio consecutivo da quando l’inflazione ha imboccato la via del rallentamento. Finalmente i prezzi sembrano sotto controllo: nell’Eurozona l’aumento annuo si aggira attorno al 2%, esattamente sul target ufficiale dopo anni di sforamenti e delusioni. Anche negli Stati Uniti la fiammata va scemando: a maggio l’inflazione annua scende al 2,4%, in lieve calo dal mese precedente. La Federal Reserve mantiene i tassi fermi, in attesa di valutare l’evoluzione con calma.

Eppure, sul fronte politico, c’è chi preme per agire subito: il Presidente Donald Trump non nasconde la sua impazienza e twitta accuse al governatore Jerome Powell, esortando la Fed ad abbassare il costo del denaro di un punto percentuale. Mentre le banche centrali ponderano mosse future, i mercati finanziari vivono un principio di mese relativamente sereno, cullati da dati confortanti e prospettive di distensione monetaria.

Agli idi, un nuovo shock geopolitico: nella notte tra il 12 e il 13 giugno Israele colpisce a sorpresa alcune installazioni nucleari in Iran. I mercati temono un’escalation regionale e, soprattutto, possibili ricadute sulle forniture energetiche. Cresce l’attenzione sullo Stretto di Hormuz, crocevia di circa un quinto del petrolio mondiale.

La reazione è immediata: il Brent balza di quasi il 10%, superando i 77 dollari al barile, ai massimi da cinque mesi. Le Borse internazionali arretrano: il Dow Jones perde quasi il 2%, le piazze europee cedono l’1%, in Asia vendite diffuse colpiscono Tokyo, Seul e Hong Kong. Aumenta la volatilità, e gli investitori si rifugiano nei beni sicuri: l’oro guadagna oltre l’1%, sfiorando i record, mentre il dollaro si rafforza. In forte calo invece i titoli legati al trasporto aereo e ai settori più sensibili al prezzo dell’energia.

Anche il mercato obbligazionario si muove con nervosismo. Inizialmente i Treasury americani vengono acquistati per protezione, facendo scendere i rendimenti. Ma il balzo del greggio riaccende i timori inflattivi: le aspettative di una Fed più aggressiva riportano in alto i tassi, con il decennale USA che torna al 4,4%. Il risultato è un equilibrio precario, con pressioni divergenti su bond e valute.

In Europa il quadro non è diverso: anche i Bund tedeschi oscillano in risposta alla rinnovata incertezza sui prezzi energetici. Per giorni, ogni notizia è sufficiente a invertire i flussi.

La crisi geopolitica intanto si approfondisce. Le minacce iraniane si fanno concrete: Teheran risponde ai raid israeliani lanciando missili verso obiettivi nemici, facendo risuonare le sirene a Tel Aviv e Gerusalemme. Il Presidente USA Donald Trump, che in un primo momento aveva esortato l’Iran a fare un accordo per evitare escalation, opta invece per un cambio di passo drastico: nella notte del 22 giugno bombardieri USA colpiscono tre siti nucleari iraniani di rilevanza strategica.

Si scuote ulteriormente lo scacchiere internazionale: per la prima volta la Casa Bianca interviene militarmente in sostegno di Israele in questa guerra lampo. La mossa ha effetti immediati sul morale e sui calcoli di Teheran. Con forze convenzionali inferiori, l’Iran cerca carte non convenzionali da giocare: Ali Khamenei dichiara che gli attacchi occidentali non fermeranno lo sviluppo nucleare della nuova Persia, poi minaccia ritorsioni asimmetriche contro interessi americani nella regione, evocando, ora sì, lo spettro di Hormuz, nome che somiglia a qualche leggendario luogo tolkeniano sperduto nel tempo.

La Repubblica Islamica lascia intendere che, se provocata oltre, potrebbe provare a bloccare lo stretto, strangolando le esportazioni di greggio del Golfo Persico. È un’eventualità da incubo per l’economia globale, che rievoca immediatamente precedenti storici inquietanti.

Queste considerazioni iniziano a farsi largo proprio mentre la crisi tocca il suo apice. Dopo oltre una settimana di scambi di fuoco, con missili iraniani che il 23 giugno colpiscono una base americana in Qatar, si intravede però uno spiraglio. Inaspettatamente, le diplomazie al lavoro dietro le quinte riescono a fermare l’escalation.

Il 24 giugno il presidente Trump annuncia che Israele e Iran hanno accettato un “cessate il fuoco”, ponendo fine a una guerra lampo durata 12 giorni. La notizia coglie di sorpresa il mondo, come improvvisa quanto era iniziata la crisi. La tregua è fin da subito fragile – entrambe le parti si accusano a vicenda di violazioni nelle ore immediatamente successive all’annuncio – e infatti Trump stesso, con il suo stile sopra le righe, reagisce furiosamente quando circolano voci di nuovi attacchi israeliani, minacciando di ritirare il supporto se non verrà rispettato l’accordo.

Al di là della retorica, il segnale di de-escalation c’è e i mercati vi si aggrappano con sollievo. Nel giro di poche sedute l’euforia rimpiazza la paura. Gli operatori realizzano che il peggio è scongiurato: niente guerra regionale prolungata, niente blocco di Hormuz. Così, quello stesso 24 giugno, gli indici azionari globali mettono a segno un rimbalzo poderoso. A New York l’S&P 500 risale oltre i livelli pre-crisi e il Nasdaq tocca nuovi massimi. In Europa, l’Euro Stoxx 50 guadagna più dell’1%, registrando la performance giornaliera migliore da oltre un mese. Perfino l’indice azionario mondiale MSCI segna il suo record assoluto, segno che il sentimento di rischio è tornato positivo su tutte le piazze.

I settori ciclici e più legati alla crescita economica guidano la risalita in Borsa (tecnologia, finanziari, industria), mentre calano i comparti difensivi come le utility e ovviamente arretrano i beni rifugio: l’oro ripiega dai recenti picchi e il franco svizzero e lo yen (valute rifugio per eccellenza) perdono terreno sul mercato dei cambi. Parallelamente, il petrolio vive una vera e propria retromarcia: bruscamente le quotazioni del Brent crollano di oltre il 6% in un solo giorno, riportandosi sui minimi di due settimane, cioè ai livelli che precedevano il primo attacco del 13 giugno. In pratica, si dissolve tutto il premio al rischio accumulato nel prezzo: “Il risk premium geopolitico costruito dopo il primo strike israeliano è svanito completamente” commenta Tamas Varga, analista senior di PVM Oil Associates, notando come il Brent sia tornato dov’era prima che la crisi scoppiasse: il mercato del petrolio, che durante la guerra lampo era salito ai massimi da gennaio, chiude il mese come se nulla fosse successo. Un pattern tutt’altro che nuovo per chi ormai sa cosa aspettarsi quando si ha a che fare con queste cose.

Sul fronte dei titoli di Stato, la fine delle ostilità riporta gradualmente la calma. Negli USA i rendimenti decennali, dopo i saliscendi concitati di metà mese, tornano a scendere leggermente su base settimanale, segno di un ritorno di fiducia e di minori tensioni inflazionistiche attese. In Germania, invece, i tassi mostrano un movimento opposto ma per ragioni interne: proprio il 24 giugno il governo di Berlino approva una bozza di bilancio più espansivo per il 2025, con maggior deficit e investimenti, e questo spinge al rialzo i rendimenti sul Bund decennale fino al 2,54%.

Si tratta di un segnale che le vicende geopolitiche non sono l’unico driver dei mercati: accanto alla fine della crisi mediorientale, i fondamentali macro e gli eventi politici nazionali tornano a contare. Complessivamente, comunque, il mese di giugno si chiude per i mercati finanziari con un bilancio molto meno drammatico di quanto si potesse temere nel pieno della tempesta: la volatilità rientra, i listini azionari globali sono addirittura saliti in terreno positivo, le obbligazioni riflettono aspettative di politiche monetarie più accomodanti e il dollaro riduce i suoi guadagni precedenti.

L’inflazione, sorvegliata speciale, sembra aver incassato il colpo del petrolio senza conseguenze durature. Non potrebbe esserci cornice migliore, a questo punto, per il momento di riflessione dei banchieri centrali.

Il 30 giugno, sul palco portoghese di Sintra, sede del Forum annuale della BCE, Christine Lagarde lancia un messaggio che parte proprio dall’idea di una nuova natura dell’inflazione: “il mondo che ci attende è più incerto – e questa incertezza probabilmente renderà l’inflazione più volatile”. I recenti avvenimenti sembrano darle ragione: gli scossoni improvvisi, dai conflitti geopolitici alle strozzature dell’offerta, rendono i prezzi meno prevedibili e costringono le banche centrali ad essere pronte a mosse decise. Lagarde, infatti, sottolinea che in futuro, di fronte a deviazioni significative dall’obiettivo del 2%, la BCE dovrà agire “in modo appropriatamente energico o persistente” per riportare la stabilità.

Il contesto storico attuale ci ricorda con forza che non è più possibile adagiarsi. Dopo un decennio, segnato da inflazione persistentemente bassa — quasi deflattiva — oggi ci troviamo a fronteggiare una dinamica opposta, dove l’inflazione è un fenomeno silente.

La sfida è resa ancora più complessa da un contesto macroeconomico profondamente mutato: le imprese si adattano con maggiore rapidità agli eventi, gli equilibri internazionali sono più instabili, e incertezze e shock esogeni non rappresentano più eventi straordinari, ma elementi ricorrenti del nuovo paradigma.

In questo scenario, le opportunità continuano a presentarsi, ma richiedono un approccio più rigoroso e strategico. È fondamentale mantenere un portafoglio ben diversificato, capace di assorbire volatilità e mutamenti ciclici, e allo stesso tempo non perdere mai di vista l’importanza dell’orizzonte temporale. Inoltre, è necessario evitare reazioni impulsive dettate dall’emotività.

In un mondo dominato dall’instabilità, la resilienza di un portafoglio si costruisce prima di tutto con metodo, consapevolezza e coerenza rispetto agli obiettivi finanziari dell’investitore.